Per descrivere e rendere omaggio ai luoghi dove è nato e vive il nostro Club, quale miglior modo di postare alcuni stralci di “Itinerari ETRUSCHI”, reportage di un viaggio, avvenuto nel 1848, di George DENNIS, Architetto appassionato di storia etrusca.

A quei tempi le moto non esistevano, ma lo spirito era quello giusto!
Imaginare anphiteatrum…
quale sola rerum natura possit effimere.

Quando lasciammo la inospitale Locanda della Storta, era una fredda mattina di ottobre e la tramontana soffiava fredda ed aspra. Le tinte calde delle foglie degli alberi, sparsi per le colline, e la neve che già imbiancava le cime più alte delle montagne d’Abruzzo, faceva presagire che ben presto l’autunno avrebbe ceduto il passo all’inverno. La strada principale che da la Storta conduce a Firenze, segue ancora il tracciato della via Consolare Cassia e questa mi veniva ricordata dai blocchi di basalto che, ammonticchiati ai lati della via, erano in attesa di essere spezzati convertiti in pietrisco per la brecciatura della strada romana, secondo gli usi moderni, a maggior conforto dei viaggiatori.

Sutri è stata nei tempi passati così poco esplorata che certamente deve nascondere nelle, nelle sue viscere, una grande quantità di resti di altissimo interesse archeologico.

Poco dopo La Storta, si incontra il bivio per Bracciano ed il suo lago. Qui aveva inizio la Via Clodia che segue il tracciato di quella strada etrusca che, partendo da Veio, raggiungeva Cosa, il porto etrusco di Ansedonia. Il suo percorso toccava SABATE, CAERE, BLERA, ORCLE, TUSCANA, TARQUINI, VULCI, ed è con cura ancora descritto dalla Tavola Peuntigeriana.

La prima località toccata da questa via etrusca dopo Veio, era CAREIA, città etrusca a quindici miglia da Roma, ora rappresentata dalle rovine di GALERIA o GALERA, un villaggio medioevale, quasi ai margini della attuale Via Clodia, che fu abbandonato dai suoi abitanti a causa della malaria.

Careia è ricordata da Frontino ed è menzionata dalla Tavola Peuntigeriana. Sappiamo di certo che fu di origine etrusca ma nulla di più rimane di quella età, né tombe, né tracce di fortificazioni, di strade, di case che possano testimoniare la sua antichità.

Due miglia dopo La Storta, sulla Cassia, si arriva all’Osteria del Fosso, un posto solitario con locanda, che non ha nulla di particolare tranne la ostessa, che, a detta popolare, come la scrofa di Lavinio, è stata la madre di trenta figli. Il fiume che vi scorre dappresso è il fiume dei due Fossi che proviene da Veio dopo averne bagnato le mura. Nelle pareti rocciose dei dintorni vi sono tombe etrusche che fanno parte della Necropoli di Veio.

Sette miglia oltre, attraversata una campagna ondulata, si giunge alla Valle di Baccano, un luogo come molti altri in Italia, conosciuto solo attraverso le guide ufficiali. All’epoca dei Romani era una stazione di posta per il cambio dei cavalli, e tuttora ha lo stesso incarico. Ha una osteria annessa, un alloggio per i viaggiatori e stalle per il cambio dei cavalli. La stazione è ai piedi di una ripida discesa, nel cratere spento di un vulcano che convertitosi in lago, venne in epoca storica, prosciugato a mezzo di emissari scavati sotto le colline che lo chiudevano. Fu forse opera etrusca. Al diciottesimo miglio, vicino al villaggetto di Baccanaccio, se ne può vedere uno, tagliato nella viva pietra, profondo circa sei metri e molto stretto, che il Geli pensa sia stato scavato in tempi antichi; forse fu scavato molto probabilmente, in tempi recenti dai Principi Chigi, gli attuali proprietari del territorio. Verso Roma abbiamo visto alcuni canali di scolo antichi, ma che servono a prosciugare terreni più alti e attraversano il bordo del cratere in località Monte Lupolo. In questa località esistono nella parte alta dei pozzi, che gli abitanti del luogo dicono essere profondissimi e che molto probabilmente, dovevano dare aria agli emissari sotterranei del lago. Essi furono dallo Zanchi scambiati per i cunicoli di Camillo, quando si pensava che Veio sorgesse nei paraggi di Monte Lupolo.

Il lago è ora rappresentato da un piccolo stagno, al centro della pianura, che serve per l’abbeveraggio delle mandrie e ad incrementare una delle più attive zone malariche di tutta Italia.

La zona era anche ben nota, un tempo, per la malaugurata presenza di feroci briganti, e per quanto le cose siano ora cambiate in meglio, lasciamo il viaggiatore con l’avvertimento di viaggiare da queste parti con prudenza per evitare il pericolo che qualche perfido oste, alleato dei malandrini, gli faccia recitare, per l’ultima volta, le preghiere della sera.

Sulla cresta del cratere si notano molti segni di strade che entravano nella valle. Sul Monte Razzano, quella collina che domina Baccano, alcune rovine, chiamate con indubbia autorità, FANUM BACCHI, furono forse la stazione di posta che i Romani chiamarono BACCANUM a causa della vicinanza di un tempio dedicato a questo nome, di cui si sono perdute le vestigia.

A due miglia da Baccano, sulla destra, è il paese di Campagnano, da cui si gode uno splendido panorama della campagna sottostante con il Soratte che fa da sfondo. È un villaggio di una certa importanza, specialmente se lo si paragona alla miseria di quelli delle vicinanze. L’aspetto dei luoghi e la presenza di alcune tombe abbandonate, lo fanno pensare di origine etrusca. In paese, però, vi sono solo pochi resti romani.

A quattro miglia da Baccano è Settevene, una località solitaria in mezzo ad una campagna deserta. Malgrado tutto è una Stazione di Posta con locanda comoda ed accogliente, tra le migliori tra Roma e Firenze. Nelle vicinanze vi è un ponte romano ad una sola arcata, in eccellenti condizioni di conservazione. Dalla valle di Baccano partono due strade minori che portano ai piccoli laghi di Stracciacappa e Martignano di origine vulcanica. Ambedue le strade di costruzione romana, come rilevato dalla pavimentazione. Quella che porta al lago di Martignano (Lacus ALSIETINUS) prosegue sino al lago di Bracciano (Lacus SABATINUS) ma poco prima si biforca. A destra porta a Trevignano e Bracciano, a sinistra raggiunge Anguillara. La visita di questi due graziosi laghetti vale la improba fatica per raggiungerli. I luoghi silenziosi e solitari hanno qualcosa di solenne. Non vi sono nelle vicinanze testimonianze etrusche.

Dopo Baccano e Sette Vene, si arriva a Monterosi che il Geli afferma, con dubbia autorità, essere la antica ROSSULUM. Non ha l’aspetto di un villaggio Etrusco o Romano. Forse è il luogo dove sorgeva un punto strategico vigilato dai Romani chiamato OPPIDUM ROSSULUM, senza essere mai stato una vera e propria città. Il paese è dominato da un’altura chiamata Monte dei Lucchetti ed ha sulla sommità alcuni avanzi di un castello medioevale. La vista che si gode da questo punto ripaga l’ascesa del colle, del resto non molto faticosa. Il Soratte che si innalza dalla pianura come un’isola dal mare, il Monte Aguzzo, i Cimini da una parte ed i monti nevosi dell’Abruzzo dall’altra, il grande silenzio della Campagna Romana, costituiscono, come sempre uno spettacolo incomparabile.

Monterosi ha due locande, ambedue pessime. Forse quella dell’Angelo è la più sopportabile. Della locanda della Posta ho avuto una esperienza tanto spiacevole che non desidero ricordarla. Il solo ricordo mi inorridisce. Memi- nisse horret!

Sutri, la antica SUTRIUM, dista sette od otto miglia di buona strada carrozzabile da Monterosi, ma non ha nessun albergo o locanda che possa ospitare decentemente il viaggiatore. Si è così costretti a proseguire per Ronciglione dove si può alloggiare alla meno peggio all’Aquila Nera. Subito dopo Monte- rosi ed il suo laghetto omonimo (il Lacus Ianula dei Romani) la via si biforca. A sinistra prosegue per Sutri e Vetralla, a destra per Ronciglione e Viterbo. Dopo poco cammino, appare ben presto la città di Ronciglione, adagiata sulle pendici boscose dei Cimini. Il suo aspetto è più che decoroso, le case si snodano su per le ripide strade e le cupole chiare delle sue chiese si stagliano piacevolmente contro il verde delle colline boscose. Ronciglione si estende romanticamente sul ciglio di un profondo burrone e lungo le ripidissime coste di questo, si aprono molte tombe abbandonate che ne denunciano la sua origine etrusca.

Malgrado la certezza della sua origine, non conosciamo né la sua storia, né il suo nome etrusco né quello romano. A poca distanza da Ronciglione è Caprarola, famosa in tutto il mondo per il suo magnifico palazzo Farnese, capolavoro del Vignola.

Considerato che la città di Sutri non ha nessuna locanda, conviene alloggiare a Ronciglione, raggiungere ogni mattina Sutri e percorrere le tre miglia di strada che la separano, per quanto questa strada sia una delle più disagiate che abbia incontrato in Italia.

Sutri, come la maggior parte dei borghi etruschi della Tuscia inferiore, è posta su uno sperone di tufo e due ruscelli le girano intorno.

È circondata da ogni parte da profonde voragini e questo particolare fu anche notato da Tito Livio: ” Aspreta strata saxis “. Come Veio e tante altre città etrusche, Sutri è unita al retroterra da una stretta lingua di terra. A differenza di Veio e di Roma stessa che estesero le loro aree abitabili oltre il primitivo colle, Sutri rimase sempre confinata entro i limiti angusti della sua posizione naturale. Se in un certo senso questo le impedì di passare dal rango di villaggio al rango di città, pure, proprio per la sua posizione naturale di roccaforte, rappresentò un punto obbligato di passaggio per il nord. Insieme a Nepi, sulla sua destra, tenne in pugno le ambite chiavi di accesso all’Etruria. Livio la definiva: ” Claustra portaeque Etruriae “. È certo che la sua posizione privilegiata fece di questa città una ambita fortezza militare, e come tale rimase a lungo, anche dopo la caduta dell’Impero etrusco.

La città moderna occupa esattamente l’area dell’antica ed è costruita con gli stessi materiali. Non si può certo affermare che le case di oggi siano le case abitate dagli Etruschi tanti anni fa, però le fondazioni e le cantine sono certamente rimaste intatte come in origine. Pensiamo logicamente che quei blocchi di tufo serviti per la costruzione delle case attuali, siano ancora quelli adoperati dagli etruschi. Chi conosce gli italiani sa che essi mai scaverebbero nuovi materiali quando hanno a portata di mano materiale già pronto. Le colonne ed i frammenti di sculture murati nelle case provano che anche i resti della Sutri Romana hanno servito alla costruzione delle case moderne.

Lungo le antiche mura, nella parte a sud della città, si possono vedere i resti delle fognature che passavano sotto le loro basi, simili come forma e misura a quelle che abbiamo visto a Fidene.

Le mura sono in tutto simili a quelle della maggior parte delle altre città etrusche. Cogliamo questa occasione per parlare brevemente del sistema usato nella loro costruzione. La pietra usata nella Tuscia inferiore, (compresa tra la attuale Toscana ed il Tevere) è sempre il tufo vulcanico tagliato in blocchi rettangolari della lunghezza doppia della loro altezza, i blocchi misurano abitualmente un metro e venti centimetri di lunghezza per sessanta centimetri d’altezza. Negli spigoli il blocco è quadrato e mostra così da ogni sua parte una eguale lunghezza. Ad eccezione di Cerveteri, che ha usato blocchi più piccoli, tutte le altre città hanno usato blocchi di queste dimensioni per la costruzione delle mura. La struttura muraria usata, è identica al sistema greco dell’EMPLECTON ed al sistema Romano dell’Opus CAEMENTICIUM ricordati sia da Vitruvio che da Plinio. Questi sistemi, praticamente identici, consistono della posa in opera di due cortine di blocchi squadrati il cui spazio intermedio è riempito da una miscela di frammenti di pietre rozze e malta. È interessante notare che questo sistema di muratura, fu poi adottato dai Romani sino alla fine del periodo Repubblicano, cosicché non è molto facile, a volte, stabilire se una costruzione antica appartenga agli Etruschi o ai Romani.

Sutri ha quattro porte, una verso Est, una ad Ovest, e due a Sud. Vi era in origine una quinta porta aperta a Nord, ma è ora chiusa. Sembra che questa porta a Nord e le due ancora esistenti a Sud, siano le originali così che Sutri avrebbe avuto nel periodo antico, il giusto numero delle tre porte, come prescrivevano i rituali Etruschi.

Sopra la porta volta ad occidente v’è la seguente iscrizione:

SUTRIUM, ETRURIAE CLAUSTRA, URBS SOCIA ROMANIS

COLONIA CONJUNCTA JULIA

e sopra la porta Romana, l’altra porta moderna, è dipinto lo stemma della città formato da un cavaliere con tre spighe di grano in mano. Sotto una iscrizione dice: A PELASGIIS SUTRIUM CONDITUR. Questa iscrizione suona come un vero e proprio falso, prima di tutto perché nessun autore classico ha mai affermato ciò, poi perché lo stesso nome della città è decisamente di radice etrusca e Sutrium è nome etrusco latinizzato.

Le parole SUTRINAS e SUTHRINA O SURRINA ricorrono spesso nelle iscrizioni Etrusche.

Che Sutri sia di origine etrusca, non v’è alcun dubbio, perché innumerevoli sono le evidenze della sua origine. Però nulla o quasi nulla conosciamo della sua storia del periodo etrusco. Sappiamo che fu conquistata dai Romani e che sostenne molte guerre, non contro Roma, come Veio e Fidene, bensì contro gli Etruschi stessi. Diodoro afferma che fu catturata dai Romani nel 360 di Roma e che nel 371 divenne una sua colonia. Considerato che la data della caduta di Sutri è molto vicina a quella della conquista di Veio e di Fidene, si può desumere che le tre città fossero alleate e facessero parte dello stesso territorio.

È certo che divenne dopo la conquista, un caposaldo dei Romani che ne intuirono subito la immensa importanza strategica. Probabilmente mantennero, entro la città, una forte guarnigione concedendo alla popolazione grossi privilegi e tali garanzie di difesa, che resero i Sutrini fedeli alleati di Roma e nemici dei confederati Etruschi. Questi strinsero più volte d’assedio Sutri ed anzi, nell’anno 365, quando era già nelle mani di Roma, la espugnarono, deportando gli abitanti e confiscando tutti i loro beni.

Tito Livio racconta come Furio Camillo incontrasse la triste processione di questi abitanti che venivano spinti in direzione di Roma dagli Etruschi vincitori e che promettesse loro la vendetta delle armi. Camillo mantenne la promessa e lo stesso giorno volò su Sutri. Entrò nelle mura attraverso le porte della città non custodite dai soldati, che erano intenti al saccheggio delle case rimaste deserte, ed in breve si rese padrone della situazione. Sottomise, quasi senza combattere, gli Etruschi vincitori, e prima del tramonto, restituì le case e gli averi agli abitanti. Così Sutri cadde e fu riconquistata nello stesso giorno. Dalla rapidità di questa ‘ operazione, i Romani trassero il proverbio di IRE SUTRIUM per significare che una azione era compiuta nel modo più rapido (in termini attuali in quattro e quattr’otto) e col risultato più soddisfacente. Questo modo di dire IRE SUTRIUM doveva essere molto popolare a Roma se Plauto lo riferisce spesso nelle sue commedie.

La porta che si apriva a nord ed attualmente chiusa, si chiamava la ” Porta Furia ” in onore dell’ingresso che di lì fece Furio Camillo quando liberò Sutri dall’attacco della Lega Etrusca, però è evidente che tale attribuzione è apocrifa (a meno che la .porta non sia stata ricostruita di nuovo) perché le attuali strutture ne rivelano la costruzione medioevale del decimo o al più dell’undicesimo secolo. In più il suo arco termina leggermente a punta e ciò convalida la nostra ipotesi. La porta è chiusa da secoli.

Livio ricorda che nell’anno 368 di Roma, Sutri fu ancora una volta conquistata dagli etruschi e riconquistata da Camillo. Subì ancora nel 443 un lungo assedio e fu liberata da Fabio. Nello stesso anno Fabio, con una spedizione condotta attraverso i Monti Cimini, catturò sessantamila etruschi che vennero in massima parte trucidati. Alcuni autori antichi affermano che questa vittoria avvenne nei pressi di Perugia.

In ogni modo, le alterne vicende delle guerre combattute nel territorio di Sutri, dimostrano quanta importanza sia i Romani quanto gli Etruschi dessero alla posizione di questa città, che per la sua particolare situazione strategica, apriva e chiudeva le porte di accesso all’Etruria intera.

Sutri è spesso ricordata da Strabone, Silio Italico, Plinio e Tertulliano. La ultima sua testimonianza storica, è una lapide marmorea dell’epoca di Adriano. È storicamente accertato che non fu mai distrutta dai Romani, come Veio e Fidene, e la sua presenza è sempre riportata nelle cronache antiche, sino ad oggi. Né risulta che abbia mai cambiato nome.

Uscendo da Porta Romana, si entra in una valle stretta dalle pareti a picco di tufo rosso e grigio, scavate da tombe abbandonate. Il picco di destra è pittorescamente coronato da una folta chioma di lecci. Sopra un passaggio scavato nel tufo si legge ” Qui ferma il passo. Il luogo è sacro a Dio, alla Vergine, al riposo dei trapassati. O prega o parti “. Siccome non avevamo nessuna intenzione di partire, siamo entrati e con nostra grande sorpresa ci siamo trovati, non in un sepolcro etrusco, come pensavamo, ma in una vera e propria chiesa scavata nel tufo, con tre navate separate da pilastri quadrati e illuminate da finestre, anch’esse scavate, che si aprivano nella parete che fungeva da facciata.

Questa chiesa o meglio cappella è piccola, bassa ed umida, ma desta subito un vivo interesse per la singolarità dello scavo e per la sua antichità. I Sutrini la ritengono dei primi tempi dell’era cristiana, quando era imposto che le chiese fossero fuori degli abitati.

Le pareti, le volte hanno tracce di pitture a fresco del tredicesimo o quattordicesimo secolo. Nella volta principale sono dipinti un San Giovanni Battista ed un San Michele Arcangelo ed i loro volti, particolare curioso, sono scolpiti in rilievo nel tufo. Dietro l’altare maggiore v’è un affresco raffigurante la Madonna con il Bambino che un artista del paese stava appunto restaurando. L’artista molto cortesemente si offrì di farci da guida e deposti pennelli e spatole, ci mostrò le curiosità della cappella. Una specie di caverna laterale fungeva da sagrestia e ci mostrò una porta chiusa che, diceva, comunicava con le catacombe di Nepi, Roma ed Ostia.

Esistono molte leggende intorno alle Catacombe. La verità è che, benché si sia molto esagerato circa la loro vastità, esse hanno dei percorsi intricatissimi ed è molto facile di perdervisi dentro. E forse per questa ragione i Sutrini hanno preferito bloccare il loro ingresso ed impedire a chiunque la visione delle meraviglie del loro sottosuolo.

Dato che non avevamo ancora visitato le cose migliori del paese, il giovane artista graziosamente insistette di avere l’onore di farci da guida. Ci spiegò come il portico posto avanti alla chiesetta scavata nel tufo fosse il vecchio cimitero di Sutri dove per secoli furono poste le ossa dei suoi morti. L’esame del luogo rivela che doveva essere una tomba, per certo, e che l’attuale chiesetta doveva essere un’altra tomba, naturalmente in seguito ingrandita sino alle dimensioni attuali. È dedicata alla Madonna del Parto.

In cima alla collina, dove sotto è scavata la chiesetta del Parto, è costruita la villa dei Marchesi Savorelli, in mezzo ad un bel parco di lecci e cipressi immensi, e l’avevo già notata uscendo dal paese. Attraversato il parco, ci siamo affacciati dai bordi della collina e sotto di noi era là tutto l’anfiteatro di Sutri, qualcosa che per la originalità della sua concezione e realizzazione, merita una descrizione particolare.

Caro lettore, immagina un Colosseo in miniatura o se più ti piace, qualsiasi altro anfiteatro che tu conosci, con corridoi, sedili, vomitorii, con. le rampe delle scale ancora in perfette condizioni e con gli spigoli bene squadrati. Immagina che questo anfiteatro, naturalmente di dimensioni minori degli anfiteatri Romani, non sia costruito in muratura, ma scavato in ogni suo particolare, nella roccia rossa e grigia del tufo della collina che col tempo, ha assunto dei colori acquarello delicatissimi. La sommità dell’anfiteatro ha tutto intorno una folta chioma di elei e di cipressi centenari. Tutto questo verde intenso, intramezzato dai colori accesi del tufo, e da altre tinte più tenui e sfumate date da una quantità variatissima di licheni e muschi, crea contro l’azzurro intensissimo del cielo uno scenario fantastico e quasi irreale che non si può dimenticare. Il pennello di un Poussin non avrebbe potuto immaginare un ambiente più pittoresco e più arcadico di questo.

A parte la sua arcadica attrattiva, l’anfiteatro ha un particolare interesse storico, perché probabilmente ha servito da esempio alle costruzioni Romane della epoca imperiale e forse anche al Colosseo. È storicamente provato che gli spettacoli pubblici furono importati a Roma dagli Etruschi. Tito Livio ricorda come i LUDI SCAENICI fossero una novità per i soldati Romani che fino ad allora non avevano conosciuto altro che qualche spettacolo da circo. I ludi furono introdotti a Roma nel 390 di Roma, allo scopo di pacificare l’ira degli dei che avevano scatenato quella terribile pestilenza che tra le migliaia di cittadini aveva falciato anche il grande Furio Camillo. Questi attori, venuti dalla Etruria, recitavano e danzavano al suono del doppio flauto ed erano chiamati ISTRIONES dato che la parola HISTER in Etrusco corrispondeva alla parola latina di LUDIO. Queste notizie, dateci da Livio, ci sono convalidate da Valerio Massimo. Tertulliano aggiunge che gli Etruschi furono i veri importatori dei ludi nella regione latina e a Roma.

I teatri Romani dell’epoca, dovevano essere, del resto, costruzioni molto precarie tutte in legno. Il primo teatro permanente in pietra fu costruito da Pompeo nel 699 di Roma ed ancora i suoi resti sono visibili. Tito Livio afferma che il Circo Massimo fu costruito da Tarquinio Prisco, che fu il primo re di Roma di dinastia Etrusca. Fece venire dall’Etruria i cavalli da corsa ed i pugilatori che combattevano al suono del flauto doppio. Questi due ludi dovevano diventare i più comuni e popolari considerato che essi appaiono sempre o quasi sempre nelle pitture delle tombe, nei bassorilievi dei sarcofagi, sulle urne e sui vasi dipinti. È storicamente provato che i combattimenti gladiatorii furono importati a Roma dalla Tuscia e che il loro allenatore veniva chiamato con il nome etrusco di LANISTA.

Per quanto non abbiamo avanzi di teatri, anfiteatri o circhi Etruschi, pure siamo convinti che tali edifici dovevano esistere sia per la dimostrata presenza di questi ludi tra i giochi Etruschi, sia per la affermazione diretta di molti autori, tra i quali citiamo Nicola Damasceno che ricorda come i Romani facessero combattere i gladiatori non solo nei teatri, come era in uso tra gli Etruschi, ma anche nei pubblici banchetti.

Ora avvicinando queste notizie al problema delle origini dell’anfiteatro di Sutri, dobbiamo concludere che questo anfiteatro fu costruito dagli Etruschi a modellò di altri costruiti da loro stessi in legno.

Sappiamo che il primo anfiteatro in legno fu costruito da Caio Curio alla epoca di Cesare e che, praticamente, era formato da due teatri che si chiudevano a formare un anfiteatro oppure rimanevano aperti e contrapposti a formare due distinti teatri. Sappiamo ancora da Dione Cassio e da Svetonio che il primo anfiteatro in pietra fu costruito in Roma da Statilio Tauro sotto l’impero di Augusto e che tutti gli altri, compreso il Colosseo, furono costruiti dopo. Ora è naturale che ci si domandi: come mai questi teatri ed anfiteatri, che pure esistevano in Etruria, furono costruiti in Roma solo all’epoca di Cesare? Pensiamo che i Romani, sino alla costruzione dei grandi anfiteatri dell’epoca imperiale, si contentassero di assistere ai combattimenti di fiere, alle naumachie, ai combattimenti gladiatori, negli stessi stadi (come il Circo Massimo) che erano nati per le corse dei cavalli e dei giochi atletici, oppure organizzavano questi spettacoli nelle piazze, al foro o ai banchetti o ai funerali.

Per le suesposte considerazioni dobbiamo concludere che se scopriamo nella Tuscia un edificio di tale fatta, sia pure scavato nella roccia e non costruito in muratura, dobbiamo ritenerlo ” prima facie ” Etrusco. Malgrado molti archeologi ritengano che esso sia stato scavato nel primo secolo, l’anfiteatro di Sutri rivela caratteristiche che lo fanno risalire ad un’epoca più antica. Certo non penso risalga ai giorni remoti dello splendore etrusco, però bisogna ritenerlo di un periodo storico ancora libero e non dipendente dalla soggezione politica e architettonica dell’epoca imperiale. In altre parole, sembra logico che se fosse stato progettato in questo periodo, gli architetti Romani, lo avrebbero costruito senz’altro in muratura ed ornato di marmi come appunto fecero in tutta Italia e nei territori dell’Impero, e non avrebbero perduto tempo e pazienza a scavare faticosamente una collina e vuotarla addirittura per formarne l’arena.

Esistono poi dei particolari che confermano la nostra convinzione. La cornice che orna il “podium”, per esempio, e che circonda tutta l’arena è identica come misure e disegno a quella che orna le tombe di Sutri. Le porte di accesso sono più strette in alto ed indicano chiaramente che gli artisti erano abituati a tale genere di architettura che è propria delle tombe. Tutti questi dettagli fanno più pensare all’etrusco che al romano. Il fatto stesso che la costruzione segua spesso la configurazione del terreno, la singolarità nella ricerca dell’effetto semplice, diremo oggi ” naif “, i particolari delle cornici e delle porte sopra riportati, confermano la nostra opinione.

Pensiamo che i Romani, con la loro mania di grandezza, con la costante loro preoccupazione di fare una architettura grandiosa e scenografica, non avrebbero mai compromesso la loro reputazione di grandi costruttori in una opera tecnicamente così modesta, opera che non presentava nessun problema di ingegneria o di architettura e che era una fatica meramente artigianale.

L’arena è a forma ellittica, cinquanta metri per quaranta. Le porte del ” podium ” si aprono su un corridoio a volta che circonda tutta la arena. Il podium si innalza dal piano attuale dell’arena di circa un metro, ma in origine il piano doveva essere più basso del livello attuale. Sopra il podium sono scavati i grandi gradini che formavano i sedili veri e propri. Ad intervalli regolari vi è un ” praecinctio ” o passaggio che facilitava agli spettatori l’accesso ai posti. Questi passaggi sono numerosi ed inoltre, in cima alla fila dei posti, vi è un largo corridoio che corre tutto intorno al perimetro dell’anfiteatro. Naturalmente, data la asimmetria del manufatto, le misure non possono essere regolari e le distanze uguali come in una normale costruzione. Qui lo scavo fu condizionato dall’andamento della collina, che non essendo perfettamente rotonda ed uguale nei livelli, ha costretto lo scavo e le misure delle strutture ad una irregolarità imposta dalla natura stessa del terreno. Nella parte che guarda il parco della Villa Savorelli, l’anfiteatro termina con una parete verticale che porta incise a bassorilievo nella roccia delle svelte mezze colonne ed una cornice in alto. Il tutto però è così rovinato e coperto dai cespugli del soprastante giardino, che è difficile rilevarne i particolari. Nella stessa parete vi sono diverse nicchie dell’altezza di un uomo, probabilmente fatte per accogliere delle statue oppure seggi distinti per personaggi ufficiali. Può essere che queste nicchie fossero state scavate per migliorarne l’acustica tanto più che Vitruvio le cita nel suo trattato ed esistono anche nel teatro di Taormina. È certo però che esse sono state scavate in un periodo successivo perché in alcuni punti hanno distrutto la decorazione delle colonne e la cornice, così che si può pensare siano state fatte in un periodo posteriore per migliorare l’acustica. Ogni ipotesi rimane valida e insoluta.

Un’altra caratteristica è costituita da alcune nicchie o recessi che in numero di dodici si aprono a circa metà dell’altezza degli spalti. Questi recessi sembrano veri e propri palchi per due o tre persone, riservati forse per i dignitari del paese. Tre di essi sono aperti, comunicano con il corridoio circolare e funzionano da propri e veri vomitori per il pubblico. Questi si aprono in diverse direzioni per permettere una regolare entrata ed uscita degli spettatori, molti sono in perfette condizioni di conservazione, altri mostrano riparazioni secondarie in muratura. Canaletti di scolo sono presenti un pò dappertutto per proteggere le pareti dagli scoli delle piogge e questo particolare è anche comune alle tombe.

L’anfiteatro è stato solamente in epoca recente riscoperto e ripulito da una quantità enorme di erbacce, piante e rovi che ne avevano nascosta la presenza per secoli, e dobbiamo ringraziare il Marchese Savorelli che ne è proprietario, di aver fatto questa opera di risanamento. Il maggior danno fu senza dubbio arrecato dalla natura stessa che in alcuni punti, per effetto delle radici degli alberi, ha spaccato le pareti dal tufo in più parti. Le radici sono così approfondite che non fu possibile sradicarle.

Le pareti esterne dell’anfiteatro sono lisce e non hanno la comune sovrapposizione di archi e corridoi proprie di queste costruzioni, però l’aspetto generale è pittoresco e piacevole proprio per la sua semplicità. Le pareti di tufo rosso, nella loro rozzezza naturale, colorate di bianco e di grigio dai licheni, coperte a tratti dall’edera e da altri sempreverdi, sono coronate da un diadema di elei e cipressi centenari. Completa lo scenario la vista della cittadina, e poco distante su una altura pittoresca dalle pareti boscose, la facciata di una bella chiesetta barocca.

La Cassia sotto Sutri corre tra due pareti rocciose, come in una gola alpestre ed il rosso, il giallo ed il grigio del tufo che si alterna con il verde dei cespugli, crea un ambiente tra i più pittoreschi.

Proprio vicino al paese, prima dell’anfiteatro, lungo una parete vi sono molte tombe rupestri, che rivelano la presenza di una vera e propria necropoli. Si vedono tracce di decorazioni, di pilastri, di mezze colonne, di cornici scolpite, di archi in rilievo ma la friabilità del tufo, il danno delle intemperie, la incuria degli uomini, hanno reso difficile la lettura di questi particolari.

Le tombe sono di diverse dimensioni, alcune grandi, con volte basse, altre con volte alte, alcune strette ma profonde, alcune hanno all’interno cornici semplici scolpite che circondano tutta la camera.’ In alcune esistono ancora i banchi di pietra a parete o scavati in essa, per accogliere le salme, in alcune ancora esistono i piedi per l’appoggio dei sarcofagi. L’aspetto di queste tombe è definitivamente etrusco, ma la presenza insieme di COLUMBARIA fanno pensare che una parte di questa necropoli fosse poi usata dai Romani. Come a Veio, alcune di queste nicchie sono piccole per accogliere una sola urna, altre sono più grandi per la sistemazione di due sino a sei ” OLLAE “. In una fila le nicchie sono separate da piccoli pilastri Dorici scolpiti nel tufo. La parte bassa delle nicchie ha una piccola gronda in rilievo, per evitare la sgocciolatura della pioggia e simili grondaie sono altresì presenti sulla apertura delle tombe. Questo particolare delle gronde fa pensare che anche le nicchie siano opera di artigiani etruschi. Alcune tombe mostrano tracce di intonaco, però pensiamo che sia stato applicato in epoche posteriori. Esistono molte altre tombe sparse intorno a Sutri, tutte scavate nel tufo, però tutte sono vuote e nel più completo abbandono. Pensiamo abbiano passato molte ed alterne traversie, specialmente nei secoli turbolenti che seguirono la caduta dell’Impero, probabilmente servirono di abitazione a popolazioni semi barbare, come punto di incontri di malfattori o, come appare più frequentemente, furono trasformate in ricoveri per animali e i sarcofagi trasformati in abbeveratoi, mangiatoie o depositi per i più vari usi.

In un campo lungo la Cassia, dietro le tombe rupestri, esiste un grande sepolcro, diviso in diverse camere. I loculi sono internati nelle pareti a diversi ripiani come le cuccette nelle navi. L’aspetto di questa tomba non è decisamente etrusca e fa pensare che si tratti piuttosto di una Catacomba Cristiana.

Poco distante, in un bosco molto fitto, esiste una caverna chiamata la ” Grotta di Orlando ” che la fantasia popolare dice l’ultima dimora dell’eroe lì nascosto e convivente con una dama di Sutri di cui si era innamorato mentre era di passaggio, diretto a Roma. L’aspetto della caverna non è così invitante da far pensare ad un replicato idillio di Enea e Didone. Si compone di due camere di cui la più grande è sostenuta da un pilastro quadrato. Sulla collina della Villa Savorelli, vi sono ruderi medioevali che vengono attribuiti in paese ai resti del palazzo abitato da Carlo Magno quando qui sostò sulla via di Roma, in soccorso di Adriano I. I ruderi debbono essere però di epoca più tarda.

In paese mostrano una casa dove dicono fosse nato Ponzio Pilato. La casa è senza dubbio medioevale, ma può essere sia stata ricostruita su quella che dette i natali a questo sinistro personaggio.

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Molte sono le leggende curiose che circolano nel paese. Come in tutti i paesi molto antichi, una infinità di storie di diavoli, di miracoli, di tesori nascosti, di personaggi reali o inventati sono la fonte perenne di tradizioni orali e vengono raccontate al viaggiatore con la assicurazione della autenticità più assoluta. Il nostro pittore-guida ci mostrò una testa in pietra di pecora (o di asino che sia) infissa in un angolo di una casa nella strada principale del paese e ci riferì che gli occhi della bestia erano fissi su un tesoro nascosto. Aggiunse che con suo padre, che a suo dire è uno dei personaggi più importanti del paese, avevano effettuato una infinità di scavi che risultarono però sempre infruttuosi perché era impossibile determinare con matematica sicurezza dove lo sguardo dell’asino si posasse nel territorio circostante. Avevano preso perfino in affitto una casa di fronte nella convinzione di aver individuato il punto giusto dello sguardo dell’asino e stavano effettuando profondi scavi nelle fondazioni, quando ne furono impediti dalle autorità del paese che non potevano permettere che lo scavo di un tesoro fosse affidato alla iniziativa privata. Mi confessò di aver scavato molte tombe e di aver raccolto molti vasi ed oggetti di bronzo di grande valore, ma non ne ho potuto ottenere una descrizione più precisa.

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Sutri è stata nei tempi passati così poco esplorata che certamente deve nascondere, nelle sue viscere, una grande quantità di resti di altissimo interesse archeologico. Non tenendo calcolo di quelle poche tombe, intorno al paese, che furono depredate in tempi molto antichi, deve certamente possedere una grande necropoli organizzata, le cui tombe sono sfuggite alle ricerche perché profondamente scavate e prive degli abituali segnali esteriori.

La Via Cassia da Sutri a Capranica percorre il fondo di una gola pittoresca dalle pareti ripide e fitte di vegetazioni. Capranica è una cittadina che ha tombe e fognature che ne denunziano la origine etrusca, ma oltre a ciò non presenta nulla di particolarmente interessante. Ha circa tremila abitanti più di Sutri, vino e frutta di buona qualità ed una sorgente minerale famosa per la cura delle malattie renali e delle vie biliari.

La notizia forse più interessante per il viaggiatore, è che Capranica ha una specie di locanda in casa del macellaio del paese di nome Pietro Ferri, il quale non potendo offrire molte comodità, circonda però l’ospite con una infinità di premure ed attenzioni condite con le maniere più affabili che uno possa immaginare.

Le donne di Capranica si coprono la testa con l’orlo delle loro gonne, a guisa di velo, ed assomigliano in ciò ad alcuni ritratti raffaelleschi. Si vestono di colori vividi e ben assortiti così da assumere un aspetto molto pittoresco.

Non vi sono in Capranica reperti etruschi né romani ed anche il nome antico del villaggio non ci è pervenuto né ci è stato possibile conoscerlo.

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Proseguendo lungo la Cassia si arriva alla Osteria delle Capannacce, antica costruzione medioevale, forse sorta su una ” Domus culta ” romana, che ha murate nelle pareti frammenti di marmo tolti dalla antica Vicus Matrinus. Si notano, tra essi, un rilievo mitriaco con Mitra che uccide il toro.

Questo è il punto più alto della Cassia lungo i Monti Cimini, ma l’ascesa che praticamente comincia, e a Sutri, è così graduale che non ci si accorge della altezza raggiunta. Da Capranica, poi, la strada sale in mezzo a boschi, frutteti e vigne ben coltivate, sino ad arrivare ad un altipiano chiamato le ” Querce d’Orlando ” seminato a grano che d’estate è torrido per la canicola che vi infuria. La strada poi scende dolcemente tra campi coltivati, vigne ed oli- veti sino a Vetralla che si affaccia da uno sperone sulla pianura etrusca con un panorama incomparabile.

Vetralla dista da Roma quarantatré miglia e vi si arriva percorrendo la Cassia, la quale segue, quasi sempre, il tracciato della antica via consolare. È collegata con la Città Eterna con un servizio di diligenza a cavalli, una o due volte la settimana, ed il viaggio dura nove ore od anche di più, a seconda degli umori e delle esigenze del postiglione.

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Dopo Monterosi, proseguendo per la Cassia che porta a Ronciglione, si incontra un bivio in località Guglia o Colonnette che ha ai suoi bordi degli alti cippi in travertino con incise le varie indicazioni delle strade che di lì si dipartono. Si prenda la via indicata per Loreto e dopo tre miglia di viaggio o poco meno, si arriva a Nepi.

La campagna che si attraversa merita una particolare descrizione. Dalle solitudini silenziose della Campagna Romana, si entra qui in una zona boscosa, completamente diversa dal tipo visto sinora. Se il viaggiatore è poi inglese o conosce la campagna inglese, riconoscerà che l’aspetto, la vegetazione, il verde smeraldo dei campi, le grandi querce isolate o a gruppi, le siepi ben curate di biancospino, rovi da more, vitalbie, rose canine, agrifoglio, i bordi delle strade fitti di felci, di pungitopo, le mandrie di mucche bianche e nere che pascolano nei campi verdissimi o che vengono foraggiate in stalli sotto le grandi querce, formano una autentica visione animata della campagna inglese, come è rarissimo riscontrare nel continente europeo. Qui non sembra di viaggiare in Italia ma attraverso le campagne di Surrey, del Devonshire e non occorre nessuno sforzo di immaginazione.

Questa illusione scompare appena si è in vista di Nepi, un villaggio antico e malridotto. Le mura dai merli sbrecciati ed un massiccio castello che si innalza attaccato ad esse, danno la impressione di essere giunti non ad un borgo ma ad una fortezza abbandonata. Solo la vista del campanile del Duomo che svetta alto nell’azzurro intenso del cielo, con la sua torre quadrata, ci riporta alla realtà; di essere cioè giunti ad un paese abitato. Troneggiano come sfondo la massa bluastra del Soratte ed all’orizzonte le montagne abruzzesi coperte di neve.

Avvicinandosi alla porta del paese, l’occhio è attirato da un antico tratto di mura di diciannove file di blocchi di tufo dell’altezza di circa dieci, undici metri, e di considerevole lunghezza. L’aspetto di questo tratto, molto rovinato dalle intemperie, e le dimensioni dei blocchi usati, rivela l’origine Etrusca. Costeggiando per l’esterno le mura, presso una seconda porta, un altro tratto di mura meno alto, (solo dieci file di blocchi) molto rovinato, fa pensare che qui avvenne la scalata di Camillo e dei suoi soldati quando presero d’assalto la città. Invece di entrare nel paese, proseguiamo la strada lungo le mura, un viottolo quasi impraticabile, sino ad un’altra porta che segna il limite delle fortificazioni, dopo di che la difesa della città è affidata al profondo burrone che la circonda.

La vista che si gode affacciandosi a questa ripida parete è tra le più pittoresche. Da un lato le mura diroccate con i merli in rovina, dall’altro il burrone profondo ed orrido. In fondo un mulino con la sua grande ruota che gira, azionata da una cascata cristallina del fiume che scorre in basso. Esiste però qualcosa di più che attira l’attenzione. Sul limite del burrone ed a pochi passi dalla porta, esiste un altro breve tratto di mura di sole quattro file ed in perfetto stato di conservazione. Questo breve tratto di mura è, come dire, murato entro una massa di OPUS INCERTUM di epoca Romana che ha rinforzato le mura originali lungo questa parte dell’antica Nepete.

Tutte le mura sono costruite in EMPLECTON come le mura di Sutri e questo è quanto abbiamo potuto esaminare. Naturalmente esse circondavano la città nella parte indifesa essendo gli altri lati difesi naturalmente dal profondo burrone che la circonda. Per la verità un muro più basso correva anche sul ciglio del burrone, specialmente in prossimità della lingua di terra che univa la città alla campagna.

Ciò fa pensare che in antico Nepe ebbe bisogno di saldissime difese a protezione dei suoi abitanti. Alcuni tratti di mura sono stati smantellati in epoca recente, probabilmente per recuperare il materiale utile a nuove costruzioni.

Nepi è un villaggio più o meno delle stesse dimensioni e popolazione ‘ di Sutri. È posto su uno sperone oblungo di tufo, isolato tra le valli dei Fossi Falisco e Pozzolo, affluenti del Treia. Il burrone che lo circonda è molto più profondo di quello di Sutri, ambedue le città furono considerate nell’antichità le chiavi e la porta di ingresso dell’Etruria. Il suo nome antico fu NEPE, NE- PET, NEPETE, secondo la ortografia dei vari scrittori ed è probabile che derivi dal nome del serpente NEPA, adorato dagli antichi abitanti come divinità protettrice della fertilità dei campi. Nello stemma della città il serpente è stato sempre raffigurato.

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Nepete non ha mai avuto un ruolo storico molto importante. Le sue citazioni sono occasionali e sporadiche, normalmente viene abbinata a Sutri come le due città alleate di Roma alle porte della Tuscia. Questo fa pensare che Roma, saggiamente consapevole della loro grande importanza strategica, cercò sempre di tenerle strette ed unite in una buona alleanza, allo scopo di avere in ogni momento le porte dell’Etruria aperte e ben guardate. Sappiamo che Nepete cadde sotto il dominio di Roma nel 368. Nel 371 di Roma, ossia tre anni dopo, come ricorda Tito Livio, i Nepesini ed i Sutrini, uniti, inviarono legati a Roma per chiedere aiuto contro gli Etruschi che avevano occupato le due città. Livio racconta ancora che Nepe era caduta perché una parte della popolazione parteggiò con gli Etruschi contro i nuovi alleati. Roma allora inviò il sempre presente Camillo che riconquistò d’impeto la città e fece decapitare gli alleati infedeli dalle scuri dei suoi littori. Diventò colonia di Roma dieci anni dopo Sutri; ed ambedue le città ebbero un trattamento privilegiato. Conservarono infatti intatto il loro territorio, lo governarono con amministrazione propria ed indipendente, e gli abitanti erano pari nei diritti e nei privilegi ai cittadini Romani. Probabilmente le due città di Sutri e Nepi furono alleate tra di loro, considerato che molto spesso sono dagli autori antichi nominate insieme. Anche altre città come Arezzo, Cortona, Perugia era-no strette da una alleanza all’interno della Grande Confederazione. Questo avveniva quando il ” vinculum in vinculo ” era determinato da comunione di interessi e dalla vicinanza di territorio.

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E il viaggio ancora continua…

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